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Questo testo in formato PDF - Come utile complemento si legga La prova necessaria per condannare in cui si spiegano i limiti anche della prova scientifica.
Prof. Dr. Edoardo Mori
Magistrato a. r.
Sono
stato da sempre uno studioso di criminologia e scienze forensi; credo
che siano pochi i magistrati che già all’inizio dell’Università si
erano letti il Trattato di polizia scientifica di Salvatore Ottoleghi
(1910) o il Manuale del giudice istruttore di Hans Gross (1908) e si
fossero comperati, con le scarse lire di uno studente povero, il
Dizionario di Criminologia di Florian, Niceforo e Pende (1943); per non
parlare dei libri di balistica, psichiatria e medicina legale. Ricordo
che già all’epoca facevo esperimenti su come evidenziare impronte
digitali con i vapori di iodio e ritengo di aver avuto una delle prima
copie in Italia del libro di G. Burrard “The identification of firearms
and forensic ballistics” (1934).
Fu così che appena vincitore del
concorso di magistratura (1968), facevo relazioni ai miei colleghi per
spiegare le grandi possibilità ed i pericoli delle scienze forensi e
poi, da giudice, tenevo conferenze sull’argomento alle forze di polizia.
Una volta fui persino chiamato al CSM (non è il Centro Salute Mentale,
nonostante la somiglianza) a parlare di armi e di balistica in una
serie di incontri voluti da Falcone. Ebbi successo, ma non fui più
chiamato perché ebbi l’ardire di spiegare che molti dei periti che i
tribunali usavano come oracoli, erano invece degli emeriti ciarlatani.
Molti di essi hanno continuato ad insegnare ai giovani magistrati e i
risultati si vedono; ma guai a parlarne male ai PM; è come rubare le
caramelle ai bambini. Uno di essi, utilizzato anche da una università
romana, era riuscito a trovare in un residuo di sparo tracce di
Promezio, elemento individuato solo al di fuori del sistema solare e
prodotto in laboratorio per decadimento atomico in non più di 10
grammi! Un altro, molto noto e strapagato, aveva scambiato un
proiettile di piombo per uno di acciaio perché il piombo al taglio si
presenta lucido come l’acciaio (che però non si taglia facilmente!);
aveva in altra occasione sostenuto che un caso di suicidio era un
omicidio in quanto il morto aveva l’arma infilata nella cintura (non
gli era venuto in mente che il cadavere era stato spostato e che un
omicida che simula il suicidio della vittima è certamente più
intelligente di un perito e l’arma la mette in mano al morto e non
nella sua cintura!). Un altro perito d’ufficio a Palermo, in un caso
delicatissimo di omicidio in cui si discuteva se il colpo poteva esser
partito accidentalmente da un fucile da caccia, dichiarò che l’arma era
in perfetto stato di conservazione e quindi era escluso l’incidente.
Nella successiva perizia, in cui si tolsero le cartelle di chiusura, si
accertò che il meccanismo di scatto era tutto rovinato dalla ruggine e
difettoso e il sullodato perito ammise candidamente che lui il
meccanismo non lo aveva neppure aperto perché, per la sua esperienza,
dentro la ruggine non si formava! Ma nessuno lo ha mai perseguito per
la sua condotta, tenuta solo per compiacere l’accusa.
Ricordo che una volta, leggendo una perizia scritta per un P.M.
pugliese con la quale il perito avrebbe fatto condannare un innocente
con rivoltanti castronerie, ebbi l’ardire di scrivere al Procuratore
Capo dicendogli, più o meno, “Caro Collega, guarda che quel perito ti
fa fare delle gran brutte figure .. ecc.”. Ebbene, l’emerita testa mi
segnalò per un procedimento disciplinare “per aver cercato di
influenzarlo” e un’altra emerita testa mi rinviò persino al giudizio
disciplinare (finito bene ovviamente, perché quando scrivo sono sempre
documentato)! Però ogni volta che ho segnalato mostruosità tecniche
contenute in sentenze, mi son dovuto poi giustificare di fronte al CSM:
una volta essi sono arrivati persino ad affermare che un giudice non
deve dire che un collega è un coglione neppure in una lettera privata.
E non è stato facile convincerli che la sua coglioneria gridava
vendetta di fronte a Dio e agli uomini.
Presto mi accorsi che parlare di scienze forensi era come pestar l’acqua nel mortaio; e gli spruzzi non erano solo di acqua.
Se volete un esempio del livello ignobile a cui sono rimaste le
indagini scientifiche, pensate solamente alle scene dei telegiornali
sui sequestri di droga: pacchi e pacchetti raccolti, contati, aperti,
ammucchiati da decine di mani sui tavoli per farli vedere in
televisione, ma non vi è un solo caso in cui queste forze di polizia
(ma la responsabilità ricade sul PM che prende lo stipendio per
dirigerli e per saperne più di loro) si siano preoccupate di rilevare
le impronte digitali sui plichi ed entro i plichi.
Eppure ormai non è un problema rilevare le impronte sui nastri adesivi,
eppure è sicuramente importante sapere se il conducente dell’auto le
confezioni le ha maneggiate, eppure è sicuramente importante risalire a
chi ha confezionato i pacchi. No, agli operatori interessa solo
arrestare l’autista, che magari pensava di trasportare tutt’altro, e di
andare al più presto in televisione con conferenze stampa che il PM, se
non fosse il primo ad infilarsi nella foto di gruppo, avrebbe di dovere
di vietare.
Dal 1970 al 2011 la situazione non è cambiata: i PM hanno continuato a
nominare il primo perito che si trovano a portata di mano, fregandosene
se sia buono o cattivo perché per essi la cosa importante e che
sostenga le loro tesi; e non si sono mai resi conto che la prova
tecnica o scientifica se non è fatta ad alto livello è fonte solo di
errori giudiziari che li espone a pessime figure personali. Come mai
nessun PM se la prende con i suoi periti che lo hanno ingannato? La
risposta è ovvia: perché i periti gli hanno dato la risposta che lui
stesso desiderava!
Sta di fatto che questo modo di fare si è lasciato dietro una scia di
innocenti condannati in base a perizie di ciarlatani e una scia di casi
insoluti. Non sarebbe male ricordare a tutti che ogni caso di condanna
di un innocente e ogni caso insoluto significano un delinquente
pericoloso libero e che perciò il danno è doppio.
Ecco qui, in ordine sparso il “museo degli orrori” tratto dei miei
ricordi per il quali ancora “disperato dolore, il cor mi preme”.
Ricordo il caso della strage di Bologna in cui i delicati primi
accertamenti sull’esplosione vennero affidati ad un generale solo
perché i PM pensano che i generali si devono per forza intendere di
esplosioni (o forse perché, come è noto, dieci minuti dopo la notizia
dell’esplosione avevano già deciso che si trattava di un attentato di
destra e poi hanno lavorato a vuoto per anni solo per trovare conferma
alla loro teoria!). Non dico che il generale abbia commesso errori,
perché non conosco gli atti, ma solo che non era noto come esperto.
Alla fine si accertò che la valigia era piena di esplosivi di tipo
militare, il che non vuol dire assolutamente nulla perché gli esplosivi
civili vengono ricavati normalmente, in ogni paese del mondo,
utilizzando residuati militari mescolati assieme; il che però bastò a
volonterosi PM e periti di dichiarare (come avvenuto anche nella
recente appendice del processo di Piazza della Loggia) che l’attentato
doveva essere ricollegato ad ambienti militari! Basta leggere gli atti
dei processi per le varie stragi, per capire perché le indagini sono
quasi sempre finite in vicoli ciechi: per anni si è cercato
disperatamente di sostenere la tesi che l’esplosivo era stato
recuperato del Lago di Garda ove era stato smaltito a fine guerra; la
tesi era veramente fantasiosa perché gli esplosivi non amano davvero
l’acqua e perché un attentatore non ha bisogno di fare tanta fatica,
come dimostra il caso di Oslo. Per i PM dell’epoca divenne un atto di
fede affermare che chiunque fosse passato vicino al Lago di Garda
poteva essere un attentatore e su questo presupposto venne iniziato un
processo contro alcuni imputati.
L’accusa finì nel ridicolo perché nessuno dei periti si era accorto che
uno degli esplosivi che affermavano essere stati nella valigia ed
essere stato ripescato nel Garda, era un esplosivo contenuto solo nei
razzi del Bazooka M 20 da 88 millimetri, statunitense, entrato in
servizio a partire dal 1948! Un po’ dura da digerire che lo avessero
già i tedeschi nei loro residuati bellici del 1945.
Quindi o erano sbagliate le analisi o era infondata l’ipotesi del Lago
di Garda, o entrambe le cose; ma le indagini continuarono con il
medesimo livello di “scientificità”, livello che contraddistinse anche
quelle sugli attentati ai treni Italicus (1974) e rapido 904
(1984).
Ricordo ancora come nel caso dell’aereo Itavia, inabissatosi vicino a
Ustica nel 1980, le analisi chimiche volte a ricercare tracce di
esplosivi su reperti ripescati da una profondità di circa 3500 metri
dopo alcuni anni dal fatto, vennero affidate a chimici dell’Università
di Napoli, chimici che in udienza ebbero l’onestà di dichiarare ” eh,
guardi, rispondo io, Malorni, noi siamo ... dei Chimici analisti, non
siamo degli esperti di... insomma di esplosivi come tali, e... quindi è
una domanda alla quale non possiamo rispondere.” Però, in
precedenza, avevano riferito di aver trovato tracce di T4 e di TNT in
un sedile e questa perizia ebbe ad influenzare tutte le successive
pasticciate indagini. Superfluo dire che anche un premio Nobel per la
chimica, privo di specifica esperienza, non sarebbe in grado di
effettuare correttamente la ricerca di tracce post-esplosione e che
quindi andare a cercare la risposta da un chimico normale era come
chiederla al primo passante.
Ricordo il caso degli accertamenti
sull’attentato a Falcone per i quali vennero ricostruiti in poligono i
300 metri dell’autostrada di Capaci, con costi miliardari (in lire),
per scoprire ciò che un esperto già poteva dire a vista con altrettanta
buona approssimazione e cioè il quantitativo di esplosivo usato; è
chiaro che ai fini processuali poco importa che fossero 500 o 1.000
chili, ma individuare il tipo di esplosivo usato. Il guaio fu che dopo
aver ricostruito l’autostrada ci si accorse che un manufatto recente
aveva un comportamento del tutto diverso da un manufatto costruito
oltre vent’anni prima. Soldi buttati via! E neppure vi è la certezza
che sia stato individuato bene l’esplosivo indicato come “tritolo
(prevalentemente), T4, e da poco esplosivo per usi civili
(probabilmente della categoria dei gelatinati)...con identificazione su
di un unico reperto anche della specie esplosiva pentrite". È probabile
che questa fosse riferibile ad una miccia rapida e spero che anche i
periti ci fossero arrivati!
Ricordo il caso dell’incendio della Moby Prince, su cui non vi era
stata alcune esplosione provocata da ordigni, ma in cui il laboratorio
della polizia stabilirà che era stata usata una bomba composta da ben
sette esplosivi importanti; purtroppo non sapevano usare il
cromatografo a loro disposizione e ogni volta che aggiungevano uno dei
sette campioni di esplosivo a loro disposizione al fine di valutare i
picchi del cromatogramma … credevano di aver trovato l’esplosivo che
essi stessi vi avevano messo. È stata una fortuna che avessero a
disposizione solo sette campioni, altrimenti avrebbero affermato che
era stata usata una bomba composta da una miscela di tutti gli
esplosivi del mondo! Ma nessuno di essi fu neppure sfiorato dal
pensiero che non vi poteva essere stata una bomba perché mancava ogni
traccia del fornello dell’esplosione!
Ricordo il caso Marta Russo in cui il laboratorio della polizia riuscì
nel miracolo di ricostruire una traiettoria avendo solo il punto di
impatto del proiettile su di un cranio in movimento che poteva essere
rivolto in infinite direzioni (in tempi meno bui al ginnasio si
studiava, in geometria, che per un punto passano infine rette e che per
due punti ne passa una sola!) e scambiò una particella di ferodo per
freni per un residuo di sparo. In questo celebre caso si verificò un
fatto a dir poco sorprendente: la Corte di Assise, che aveva affidato
una perizia su questo ultimo problema a uno dei pochissimi autentici
esperti, il prof. Carlo Torre, rinnegò i risultati (favorevoli alla
difesa) e in sentenza si avventurò a disquisire in problemi scientifici
che certamente non era in grado di affrontare, per motivare la
sconcertante decisione di condanna.
Altrettanto sconcertante fu il comportamento della Polizia di Stato
che, dopo avere allontanato dal posto di lavoro il tecnico responsabile
del deplorevole errore, dopo pochi mesi lo reintegrò nelle sue
funzioni, segno evidente che non vi era a disposizione niente di meglio.
Ricordo il caso di Unabomber in cui il RIS confessò candidamente che
avevano ignorato per mesi una prova importantissima perché ignoravano
che un attrezzo lascia sui materiali segni ben identificabili (lo
sapevano già nel 1700!). Accadde così che quella che forse poteva
essere l’unica prova per risolvere il caso (un lamierino tagliato con
una forbice) non venne adeguatamente e tempestivamente valorizzata e
alla fine si preferì condannare il povero perito (uno dei migliori e
più affidabili) che aveva insistito affinché si facesse l’esame!
Infatti si arrivò a sostenere che egli avesse ritoccato il taglio: dei
periti affermarono che, in base a certe foto malfatte del reperto agli
atti, erano riusciti a stabilire che il lamierino originale era più
largo di uno spizzico di quello repertato e che quindi lo spizzico
mancante era stato asportato dal perito per fregare l’indagato. Sta di
fatto che il metodo usato per elaborare le foto non era adeguato e non
scientificamente approvabile. Purtroppo si sa che in Italia i giudici,
essendo incapaci di valutare con la loro mente le cose un po’
specialistiche, si affidano a quella dei periti, (quelli nominati da
loro, ovviamente, non a quelli di parte, inaffidabili per definizione)
senza neppure controllare che mente hanno! Risultò poi che uno di
questi periti si rivolse a un sito Internet per chiedere aiuto su come
svolgere l’incarico. Ma si mormora anche di lotte intestine che hanno
portato a ritenere preferibile la rovina del povero perito alla brutta
figura di organismi ufficiali.
Ricordo il caso del prefetto Forleo, incarcerato con l’accusa di aver
ucciso volontariamente un contrabbandiere con la sua pistola ed in cui
lo sconosciuto perito trovato dalla Procura non si era accorto che il
proiettile era uscito da un mitra.
Ricordo il caso di Daniela Stuto, accusata di aver avvelenato con il
cianuro una sua amica, in base ad una perizia che rinnegava ogni
nozione scientifica sugli avvelenamenti da cianuro: le perite
stabilivano apoditticamente, forse in base a loro capacità paranormali,
che non poteva trattarsi di suicidio e poi, per far quadrare l’ora
della morte con l’ora dell’assunzione del veleno con il pasto,
affermavano che notoriamente il cianuro in uno stomaco pieno agisce
molto lentamente; purtroppo per loro non vi è testo serio di
tossicologia in cui si trovi tale affermazione e, per di più, lo
stomaco della morta era vuoto! Segnalo che la Cassazione ha poi
stabilito che essersi fatti dei mesi di carcere ingiustamente, aver
sofferto il terrore di un errore giudiziario, vale 52.000 euro. Il che
dimostra che i giudici (oltre a non sapere nulla di tossicologia,
possibile che io sia l’unico ad avere in casa il trattato di Orfila?)
neppure conoscono le parcelle degli avvocati e dei periti di parte per
due gradi di processo fino in Corte d’Assise!
Ricordo il caso Giuliani di Genova in cui il primo oscuro perito (ma
con quali criteri le Procure sceglieranno mai i periti?), sbagliò
tutto. D’accordo che a Genova non vi è mai stato un buon perito, ma la
mente di un PM dovrebbe riuscire a spaziare oltre il cerchio di luce
della Lanterna!
Ricordo il caso di Suor Pietra Maria, ferita gravemente da un colpo
vagante a Roma, nel 2001. L’esperta balistica della polizia, che era
stata chiamata a fare l’esperta, con scelta molto oculata, al posto del
perito più capace che la polizia avesse mai avuto (il dr. Farneti,
allontanato perché faceva sfigurare gli altri), avendo visto
sull’abito della suora il foro del proiettile con un orletto scuro,
come lascia ogni proiettile che attraversa un tessuto, ripulendosi del
grasso, polvere, residui sulla sua superficie (orletto di detersione),
si immaginò che fosse un segno di bruciatura e sentenziò che il colpo
era stato sparato a bruciapelo o quasi. La polizia si scatenò contro la
povera suora, accusandola di mentire perché non sapeva descrivere lo
sparatore, si indagò nel suo convento nel sospetto che avesse cercato
di eliminarla il suo stesso Ordine; il PM si accingeva a perquisire il
convento e mancò poco che si parlasse di IOR e della scomparsa della
Orlandi! Poi qualcuno segnalò la bufala e la cosa venne messa a tacere
per carità di patria.
Anche il caso del delitto di Cogne (un caso che in altri tempi sarebbe
stato chiuso in mezza giornata) ha lasciato stupefatti gli esperti per
il modo di procedere: infiniti sopralluoghi, ognuno dei quali
dimostrava che i precedenti non erano stati esaustivi. Eppure so per
certo che ai corsi per la polizia di Stato la prima cosa che gli
insegnano è questa “attenti, il sopralluogo va fatto in modo esaustivo
la prima volta, perché è inutile tornarci una seconda”; ma le cose non
basta dirle, occorre anche fare esperienza approfondita e che chi
applica le regole ragioni su ciò che fa. L’impressione è che si
cercasse disperatamente una prova scientifica che la scienza non poteva
dare (è noto che le indagini sugli spruzzi di sangue sono puramente
orientative) arrivando a nominare dei periti tedeschi che poi, a quanto
pare, erano dei normali buoni medici legali e non dei super esperti di
spruzzi!
Ricordo ancora il caso di Garlasco che solo un buon GIP è riuscito a
rimettere sul giusto binario perché gli investitori avevano commesso
tutti gli errori possibili: sopralluogo effettuato da principianti,
esame del computer affidato a smanettoni invece che a ingegneri
informatici, ricerca di tracce ematiche sulla bicicletta indirizzata
più a provare la colpevolezza del sospettato invece che la realtà. (Nota
di aggiornamento: il giorno 6 dicembre 2011 l’imputato è stato
assolto e i giudici hanno fermamente rilevato la totale
inconsistenza del piano accusatorio. Anche il movente era rimasto a
livello di mera supposizione).
Ricordo il caso dell’omicidio
di Meredith Kercher di Perugia in cui ho avuto la soddisfazione di
azzeccarne il problema di fondo già nell’aprile 2009. Si veda la mia
pagina http://www.earmi.it/varie/dna.htm in
cui avevo esposto l’estrema delicatezza delle indagini sul DNA,
pienamente recepita dalla perizia effettuata in sede di giudizio
d’appello. Ma era sufficiente vedere il filmato in cui uno degli
investigatori sventolava trionfante il famoso reggipetto per capire che
sulla scena del delitto era intervenuta la famigerata “squadra
distruzione prove”! (Nota di aggiornamento: i due imputati sono
stati assolti dalla corte di assise di appello di Perugia il 3 ottobre
2011; anche in questo caso la sentenza ha censurato la totale
inconsistenza del piano accusatorio basato non su una valutazione
critica delle prove, ma su una supina accettazione delle tesi del PM e
delle improbabili conclusioni della polizia. La sentenza ha osservato
una cosa che avrebbe dovuto essere chiara a tutti fin dall'inizio: che
il movente può essere ipotizzato all'inizio delle indagini per
orientarle, ma quando si arriva al processo il movente deve essere
provato, non basta sostenere che se gli imputati hanno commesso
l'omicidio un movente dovevano avercelo per forza! Nel caso di Perugia
è stata poi una cosa anomala e mai vista che di fronte a tre imputati
in contrasto fra di loro si sia deciso di separare il giudizio contro
uno solo degli imputati, così precludendo la possibilità di un normale
controllo dibattimentale delle singole posizioni.)
Questo
soltanto perché, come diremo, pare che gli investigatori non si fidino
più della prova logica, che invece rimarrà sempre la più affidabile. Le
statistiche dimostrano che nella quasi totalità dei casi un delitto è
banale e che è inutile andare a cercare soluzioni da romanzo giallo e
che sono ancora valide le regole stabilite da un filosofo medievale,
rimasto famoso per le regole logiche dette “rasoio di Occam”:
- A parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire.
- Non moltiplicare gli elementi e suddivisioni più del necessario.
- Non considerare la pluralità se non è necessario.
- È inutile fare con più ciò che si può fare con meno.
In altri termini, non vi è motivo alcuno per complicare ciò che è
semplice. All'interno di un ragionamento o di una dimostrazione vanno
invece ricercate la semplicità e la sinteticità. E purtroppo in molti
casi la risposta banale è che proprio non si sa chi sia l’autore del
crimine e ché è insensato volerlo trovare per forza mettendo i carcere
i sospettati.
Ciò che più colpisce in tutti questi casi è la totale sprovvedutezza
dei PM che di fronte a casi delicati lasciano mettere le mani sulla
prove ai primi sprovveduti che si trovano ad operare, che poi lasciano
che siano i modesti esperti dei laboratori delle forze di polizia a
fare analisi da laboratorio universitario, che perizie tecniche o
balistiche decisive vengano fatte dal primo scalzacani che gli
raccomanda il loro segretario, che fanno fare autopsie a medici legali
che di morti ammazzati ne hanno visti ben pochi. E colpisce ancor di
più la protervia con cui questi investigatori insistono nel non voler
ammettere e correggere i loro errori iniziali, neppure di fronte
all’evidenza.
Forse questa è anche la spiegazione del perché i PM scelgano certi
periti: essi non desiderano un perito critico che smonti le loro
teorie, ma un perito disponibile a sostenere l’accusa ad occhi chiusi.
E siccome i periti sanno che per lavorare devono far contento il PM …
si adeguano. È noto a chi lavora nel settore, che uno dei migliori
periti italiani in materia di esplosivi, di Brescia, negli ultimi
vent’anni non è più stato nominato da quel Tribunale per aver osato
dimostrare che un arrestato era innocente!
È anche una totale anomalia del sistema italiano che la giustizia
utilizzi come periti gli appartenenti ai corpi di polizia che,
certamente in buona fede, sono però portati psicologicamente a
sostenere il lavoro dei loro colleghi investigatori e ad accontentare i
PM.
Emblematico il caso del serial killer Sebai Mohamed. Negli anni '90 in
Puglia vennero uccise 15 anziane, violentate e sgozzate, e per questi
omicidi vennero arrestate sette persone, tutte innocenti … e tutte
condannate in base alla prova che per i giudici è sempre stata
fondamentale: avevano confessato ai Carabinieri e poco importa se poi
hanno ritrattato dichiarando di essere stati costretti a confessare.
Uno dei sette innocenti si è suicidato in carcere e alcuni non sono
ancora del tutto scagionati. In tutte le sette indagini non è stata
repertata una briciola di prova scientifica (neppure una traccia
spermatica) e quindi i sette innocenti devono essere stati individuati
con metodi paranormali! Eppure vi è qualche PM che non è ancora del
tutto convinto e che crede ancora che 15 crimini orrendi e strani,
commessi con identico modus operandi,
siano stati commessi da più persone. Come dire: è noto che in Puglia
ogni tanto c’è qualcuno che alla sera si stanca della televisione e se
ne va a violentare e sgozzare una vecchietta! E che dire di sette
collegi giudicanti che condannano sette innocenti a cuor leggero, senza
uno straccio di prova, solo perché si fidano dei Carabinieri? Pare che
nel corso dei secoli i giudici non si siano mai accorti che per
giudicare non basta il diritto, ma occorre avere la preparazione e
l’intelligenza per valutare i fatti a cui, dopo, applicare il diritto.
O forse ai giudici si applica le regola proverbiale che “è facile fare
il frocio con il sedere degli altri”. Del resto il CSM, non ha mai
condannato giudici responsabili di incredibili errori giudiziari (tutti
ricordano il caso Tortora), ma è sempre pronto a condannare chi si
arrischia a dire che un giudice ha commesso un errore giudiziario!
Possiamo ora affrontare il problema del perché le indagini vengano
fatte così male, problema di cui abbiamo già dato la parola chiave:
impreparazione e inadeguatezza degli operatori
Impreparazione dei PM e dei giudici
Negli ultimi tempi anche il pubblico ha iniziato a considerare con
qualche preoccupazione il modo con cui i pubblici ministeri gestiscono
le indagini penali. Troppi sono i casi di indagini, enfatizzate dai
mass media, in cui ogni dovere di tutela della privacy e degli
indagati, ogni dovere di riservatezza sugli atti di ufficio, viene
calpestato; vi sono dei chiari reati, ma, come si usa dire “cane non
mangia cane”. Troppi soni i casi di arresti e detenzioni in carcere non
giustificate dalle norme di legge, talvolta emesse da PM incompetenti i
quali non vogliono mollare il caso al collega del tribunale vicino;
troppe le intercettazioni che finiscono sui giornali, troppi i casi in
cui si vede che gli inquirenti brancolano nel buio senza una meta.
La situazione verrebbe percepita nella sua gravità se il pubblico
conoscesse la realtà: le scienze forensi come utilizzate in Italia sono
una sicura fonte di errore giudiziario. I giudici si affidano ai
laboratori istituzionali e accettano in modo acritico i risultati. Nei
rari casi in cui l’indagato può pagarsi un avvocato e un buon perito,
l’esperienza dimostra che l’accertamento iniziale era sbagliato; il
giudice, se ha un po’ di coscienza, dispone una superperizia e di
solito cade nelle mani di un ciarlatano che gli confonde solo le idee.
Purtroppo però i giudici sono talmente affascinati dalla prova
scientifica che non hanno il coraggio di scrivere che in quel dato
processo la prova scientifica è irraggiungibile e che la decisione va
assunta solo in base alle altre prove, e quindi si arrampicano sugli
specchi per cercare di ricavare qualche cosa di utile dagli errori
peritali. Mi viene in mente l’aforisma secondo cui i medici i loro
errori li nascondono sottoterra e i giudici li nascondono in carcere!
Ma rimane il dato di fatto che il normale indagato innocente avrebbe
più vantaggi dall’essere giudicato in base al lancio di una moneta che
in base a delle perizie.
I
problemi sono iniziati quando il legislatore, nel 1989, ha avuto la
bella pensata di stabilire che le indagini vengono dirette dal PM. Vale
a dire che improvvisamente ci si è trovati di fronte a giovani madri o
vergini appena uscite dal concorso, a giudici che non avevano mai visto
un morto o un delinquente in vita loro, (la regola attuale è che essi
non vedono mai un morto; ai miei tempi ne ho visti a centinaia,
assistendo alle autopsie dal primo all’ultimo minuto!), a giudici
civilisti passati a fare i PM, i quali dovevano guidare nelle indagini
marescialli e commissari con vent’anni di esperienza sul campo. I più
intelligenti hanno continuato ad affidarsi a loro, ma molti hanno
creduto che fosse sufficiente aver letto il codice di procedura penale!
Il che vuol dire privilegiare la forma sulla sostanza e far venir meno
quella forma di controllo che vi era quando il PM aveva il compito non
di dirigere, ma di controllare. La conseguenza è stata che le smanie di
protagonismo, la convinzione di far carriera in base alla
determinazione mostrata, hanno iniziato a prevalere.
Casi recenti,
ad esempio, hanno mostrato come sia stato spesso violato il principio
per cui, per poter mettere in carcere una persona occorrono sufficienti
indizi. E così abbiamo visto che alcuni PM confondono la gravità degli
indizi con la gravità dei sospetti. Gli indizi servono a ricollegare un
sospetto ad un reato, ma prima di tutto bisogna che sia certo il reato;
occorrono gravi indizi di responsabilità, non gravi indizi che un reato
sia stato commesso! Ed invece si sospetta che dei bambini siano stati
uccisi e si mette in carcere senza prove un poveraccio di padre
sospettato di averli uccisi (famoso caso di Gravina di Puglia). Ed
invece i bambini erano morti per disgrazia. Come dire: si finisce in
carcere per il sospetto di un sospetto! Oppure: si sospetta che alcuni
giovani abbiano ucciso una persona (caso Meredith Kercher), ma non si
sa perché e chi sia stato ed in concorso con chi: ebbene, finiscono
tutti in carcere perché si ignora il principio che se vi sono due
soggetti egualmente indiziati, ma non si sa quale sia il vero
colpevole, gli indizi non possono essere “gravi” per nessuno dei due;
un indizio al 50% è, per definizione, insufficiente.
Eppure queste regole logiche vengono spesso superate, il che fa pensare
che si sia tornati nuovamente al vecchio sistema di usare il carcere
come mezzo di pressione sui sospettati perché la confessione, anche se
estorta, solleva l’anima del giudice.
Altro aspetto evidente dei limiti dei metodi di indagine sta nel rapporto tra PM e periti.
Da un lato si nota come i PM, che vedono molti filmetti americani, ma
leggono pochi trattati di scienze forensi, siano affascinati dalla
prova scientifica, tanto da lasciar pensare che essi abbiano rinunziato
ad usare la prova logica. Il loro comandamento è “non avrai altra prova
che il DNA”! Ma la prova scientifica, senza l’intuito umano, senza le
capacità deduttive, senza l’esperienza, ha molti limiti, come già
spiegava persino Sherlock Holmes. I filmetti americani sono
fantascienza, non scienza quotidiana! Non basta una scimmia
addomesticata che batte sui tasti di un apparecchio scientifico per
avere una prova, non esistono i computer in cui basta mettere una
minima informazione ed esce la foto del reo; non esistono in nessuno
Stato i soldi per pagare un simile sistema ed è fantascientifico
credere che in un gruppo di persone vi siano solo soggetti capaci e
intelligenti come nei filmetti. Ciò contrasta con precise leggi
sociologiche secondo cui gli incapaci rappresentano almeno l’80%
(Cfr. G. Livraghi, Il potere della stupidità, 2004).
Dall’altro si vede come i PM non abbiano compreso che una prova
scientifica valida la può portare solo un perito che sia un luminare; è
evidente a tutti che i PM chiamano a fare perizie importanti il medico
compagno di merende, o il primo medico legale che si trovano a portata
di mano o i vari laboratori di Carabinieri e Polizia, buoni per le cose
di routine, ma del tutto impreparati a casi complessi, che richiedono
conoscenza della letteratura internazionale e capacità speculativa ed
esperienza universitaria (a parte l’evidente pericolo di atteggiamento
prevenuto, quando a fare gli accertamenti tecnici è lo stesso organo di
polizia che indaga; ma pare proprio che il caso Marta Russo non abbia
insegnato nulla a nessuno). Quando sulla scena del delitto si fanno
cinque o sei sopralluoghi, vuol dire che il primo è stato fatto male;
quando si cerca di stabilire l’ora del delitto dopo sei mesi, vuol dire
che il primo medico legale ha lavorato male (oppure che il PM crede che
un medico legale sia il Mago di Napoli!); quando si deve fare una
superperizia, vuol dire che il primo perito era stato scelto male. E
comunque le prove tecniche devono essere inquadrate in un quadro logico
complessivo privo di contraddizioni, tenendo presente ogni elemento di
indagine acquisito, il che è compito delicato non affidabile di certo a
tecnici di laboratorio.
Non meno preoccupante la “deriva” del GIP; questi, nel corso delle
indagini preliminari ha la funzione di controllare che il PM non leda i
diritti principali dell’indagato: che il PM non lo intercetti fuori dei
casi consentiti, che la detenzione venga disposta solo in casi di
assoluta necessità; il GIP non può disporre una misura cautelare più
grave di quella richiestagli dal PM. Eppure è sotto gli occhi di tutti
che certi GIP tendono a trasformarsi in giudici istruttori e che
talvolta mostrano più accanimento del PM. Si veda il caso
dell’interrogatorio di garanzia della persona colpita da misura
cautelare; per il codice il GIP dovrebbe limitarsi a chiedere
all’indagato se ha qualche cosa da dichiarare a propria difesa e
verbalizzare quanto questi ritiene di dichiarare; ed invece è normale
leggere che l’interrogatorio è durato parecchie ore. Ma dove sta
scritto che il GIP deve fare l’inquisitore? E dove sta scritto (salvo
che in una vecchia decisione della Cassazione!) che il GIP può persino
tenere in carcere un indagato che invece il PM, unico a conoscere tutti
gli atti del processo, ritiene opportuno liberare? La spiegazione sta
nel fatto che il GIP si rende perfettamente conto della incapacità del
PM e cerca di porvi rimedio; purtroppo è noto che è facile percepire
l’incapacità degli altri, ma difficile percepire la propria!
Ma se così è, è chiaro che il sistema studiato dal legislatore a
garanzia del cittadino vacilla notevolmente. Se il PM lavora male, se
il GIP invece di controllarne gli eccessi, ne diviene partecipe, è
certo che possono solo aumentare gli errori giudiziari, altrettanto
deprecabili sia che un innocente venga incarcerato, sia che un
colpevole rimanga libero.
Vi sono poi dei reati che per certi pubblici ministeri e giudici sono
come il fazzoletto rosso per il toro. Bastano le parole armi o
pedofilia per scatenare comportamenti inconsulti, come un tempo
avveniva agli inquisitori per le parole eresia o stregoneria, e per
farli correre a serrare premature manette ai polsi di innocenti. E si
assiste a suggestioni collettive tipiche da caccia alle streghe o agli
ebrei; sembra che l’ultima cosa che li preoccupi sia quella di poter
rovinare psicologicamente e finanziariamente una persona innocente e
scavalcano con scioltezza ogni ostacolo processuale, primo fra tutti
quello molto categorico per cui non si può mettere in carcere (e quale
carcere, dove uno è mescolato a delinquenti patentati, soggetto a
violenze di ogni tipo!) neppure un omicida se non vi sono esigenze
cautelari concrete. Ma non è un grande ostacolo perché con le parole si
può motivare tutto; basta dire che vi sono ancora delle indagini da
svolgere che potrebbero essere inquinate (anche se le indagini potevano
tranquillamente essere fatte prima ed anche se l’inquinamento è solo
nella fantasia del PM)), ed il gioco è fatto. In realtà le manette sono
diventate un moderno mezzo di tortura per acquisire prove che mancano e
per costringere a parlare chi, per legge, ha diritto di tacere!
Pensiamo solamente ai casi di politici indagati in cui il carcere
sembra obbligatorio anche quando manca totalmente ogni esigenza: non
scappano davvero all’estero, non possono reiterare il reato una volta
scoperti, non possono certo inquinare prove che il PM ha racconto in un
anno di intercettazioni; per contro per i PM è normale ritenere che un
conducente extracomunitario ubriaco che ha fatto una strage non è
pericoloso e che non cercherà di scappare!
Queste reazioni inconsulte di fronte a certi reati sono quasi sempre
accompagnate da grande ignoranza. Quella in materia di armi è
fisiologica perché chi le respinge ovviamente non può intendersene; e
così fa di ogni erba un fascio ed equipara l’innocuo collezionista di
vecchie armi a chi le armi le tiene per fare rapine oppure ritiene che
una vite o una filettatura in più o in meno o un millimetro di
differenza in un bossolo valgano anni di galera.
Ancor peggiore e preoccupante è l’ignoranza in materia di psichiatria e
psicologia per cui, di fronte ad ogni accusa di abusi su minori, per
prima cosa si prende il minore e lo si affida ad uno dei tanti
psicologi che fanno i periti per i tribunali. Ricordo per chi non lo
sapesse che l’essere iscritto all’albo dei periti non garantisce
assolutamente la bontà del perito (e neppure il fatto di essere
comparso in televisione!) e che la psicologia è una pseudo scienza che
lascai il tempo che trova. Emblematico è il caso dell’asilo di Rignano
Flaminio quando le prime indagini vennero affidate a una psicologa che
non seppe valutare l’effetto che aveva avuto sui bambini il
comportamento inquisitorio di genitori isterici. Vi posso assicurare
che in quarant’anni di professione ne ho viste di tutte: padri gettati
in carcere e privati dei figli perché la moglie, che voleva divorziare,
lo accusava di abusi sul figlio, dichiarazioni di isteriche con manie
sessuali prese per buone sebbene intrinsecamente inattendibili, bambini
presi e manipolati fino a far dir loro ciò che sosteneva l’accusa, ecc.
ecc. I PM ben di rado vedono persone innocenti da sospettare, ma sempre
colpevoli certi!
L’ignoranza del giudice comporta la sua incapacità di distinguere i
periti buoni dai periti cattivi e la sua incapacità di valutare il
contenuto di una perizia. Fra un perito che dice bianco e un perito che
dice nero, si ritrova frastornato come l’asino fra i tamburi e ha
queste possibilità: a) crede al perito di ufficio perché l’essere
d’ufficio dimostra le sue qualità o quanto meno la sua buona fede
(l’innocente che è in carcere per le cavolate del perito è notoriamente
felice che esse siano state dette in buona fede!). b) Disporre una
superperizia; ma talvolta si trova con tre perizie d’ufficio e tre
perizie di parte discordanti e allora segue ciò che hanno detto i CC o
la PS perché hanno “il marchio di fabbrica”. Mai lo sfiora il dubbio
che, secondo la legge, egli si trova di fronte ad un caso di
ragionevole dubbio che non gli consente di condannare; dove sta scritto
che i periti siano sempre in grado di accertare la verità e di decidere
il processo?
L’incapacità dei PM di scegliersi dei buoni collaboratori, l’incapacità
di resistere agli entusiasmi e frenesie investigative delle forze di
polizia, ansiose di risolvere un caso importante, comporta gravi
conseguenze: la prima autopsia è sommaria, i primi accertamenti tecnici
vengono fatti nel laboratorio locale della Questura o dei Carabinieri,
la scena del delitto viene esaminata solo quel tanto che serve per
confermare un sospetto e così, troppo spesso, le indagini vengono
avviate senza una adeguata conoscenza della realtà. È giusto che le
prime indagini siano frenetiche, perché il tempo disperde ogni prova e
anche le ore possono essere preziose, ma se si potessero utilizzare fin
dal primo momento dei veri esperti non si correrebbe il rischio di
trovarsi poi con prove inutilizzabili nei confronti del vero colpevole
(uso il condizionale perché i veri esperti sono pochi o ben nascosti!).
Il problema della scelta di periti ad alto livello è difficilmente
risolvibile anche perché i PM non capiscono che un perito valido va
pagato per il lavoro che svolge e per tutto il tempo che perderà fino
alla fine del processo. È vero che il Ministero ha predisposto una
tariffa dei compensi totalmente indegna per cui un’autopsia andrebbe
pagata da 70 euro a 500 euro al massimo, il che pone il professore
universitario molto al di sotto di lavapiatti del Bangladesh, ma se i
giudici non fossero affetti da cronica paura conigliesca, il modo per
pagare il dovuto si trova (io, almeno, l’ho sempre trovato!); come
dimostra il fatto che essi non hanno remore a disporre intercettazioni
e trascrizioni che costano centinai di migliaia di euro o a liquidare
patrimoni a periti ciarlatani. Ho visto il caso di un colonnello
incaricato di dire se 5.000 cartucce nuove, ma rimaste in ambiente
umido, erano ancora buone (bastava spararne un caricatore), considerare
ognuna delle cartucce un reperto e chiedere 7.000 euro; e il PM le
liquidò. Ho visto un perito incaricato di controllare un mezzo
container di Kalashnikov nuovi, ancora nella scatola della fabbrica, e
di stabilire se erano proprio Kalashnikov (cosa che poteva dire
benissimo chi aveva fatto il sequestro), considerare i quasi mille
pezzi come mille reperti è richiedere una somma di centinaia di
migliaia di euro. La liquidazione venne fortunatamente bloccata prima
del pagamento! Ma il PM doveva essere uno scialacquatore o un
circonvenibile, e gli andava dato un amministratore di sostegno!
Un altro grave aspetto del problema è che i giudici, esperti solo dei
quattro codici, vanno in crisi ogni volte che devono applicare
normative un po’ particolari; ed allora hanno la geniale idea di
incaricare il perito di dare risposte giuridiche; non gli passa neppure
per la mente che se ricevono uno stipendio da privilegiati è per
conoscere la legge, non per delegare la conoscenza della legge
all’appuntato Cacace. Se un’arma è comune o da guerra, non si può
stabilire se non applicando norme giuridiche ed è dovere del giudice
studiarle e capirle.
Si noti che non è davvero difficile per un PM o per un giudice che
voglia far bene il suo mestiere, essere informato su come deve fare il
suo lavoro.
I giudici degli USA hanno ufficialmente a disposizione, e devono
utilizzare, il Reference Manual on Scientific Evidence, voluto dal
Federal Judicial Center e controllato dal National Research Council,
continuamente aggiornato (la prossima edizione uscirà nel settembre
2011), in cui, per ogni settore delle scienze forensi viene esposto
diffusamente lo stato dell’arte e vengono criticati casi concreti e si
spiega che cosa si può ottenere da ogni scienza e che cosa si deve
pretendere dai periti nonché come si stabilisce se un perito ha le
capacità richieste. Non è un libro difficile da ottenere; è su internet
( www.fjc.gov/public/pdf.nsf/lookup/sciman00.pdf/$file/sciman00.pdf )
e si spera che un giudice almeno l’inglese lo conosca, anche se per
vincere il concorso basta sapere un po’ di latino (ora neanche quello)!
È vero che è di 577 pagine ed usa una terminologia scientifica, ma il
minimo che si possa richiedere ad un giudice che ha scelto di occuparsi
di processi penali è che sappia capire anche la realtà scientifica,
tecnica, lavorativa: mica glielo ha ordinato il medico di occuparsi di
processi penali.
Se i giudici lo usassero, finirebbe forse il
fenomeno per cui molti giudici pongono ai periti dei quesiti
stravaganti: ho visto un caso in cui al perito venne chiesto di
stabilire la “rosata” formata da un singolo proiettile!
La mancanza di metodo dei periti
In Italia manca un qualsiasi metodo di selezione dei periti forensi;
pensate che i periti balistici vengono selezionati dalle Camere di
Commercio come “periti estimatori”, cioè capaci di stimare il valore di
un fucile! Chiunque può diventare perito, basta che trovi un amico
giudice che lo nomini e gli consenta di far conoscere il suo nome. In
materia di esplosivi è del tutto normale che vengano chiamati
colonnelli di artiglieria o di marina che si intendono solo di cannoni
(sono quelli che quando c’è da disinnescare una vecchia bomba fanno
sgomberare la zona per chilometri senza alcuna necessità) o, ancor
peggio, dei semplici artificieri, bravi a far saltare un pacco
pericoloso, ma privi di ogni altra cultura. Eppure è noto che i veri
esperti di esplosivistica in Italia si contano sulle dita di una mano
di un mutilato e che gli altri sanno (male) ciò che trovano … su
Internet.
I tribunali sono pieni di periti tuttologi i quali si vantano di poter
fare perizie in qualsiasi materia, dalla balistica alla grafologia,
agli incendi, alla dattiloscopia; eppure questi personaggi, che spesso
non hanno neppure una laurea scientifica che lasci sperare che almeno
sanno orientarsi in un laboratorio, non possono essere altro che dei
ciarlatani. Solo per la balistica vi sono almeno tre settori (residui
di sparo, comparazione dei proiettili, meccanica delle armi) in cui è
necessario essere altamente specializzati in via quasi esclusiva; altro
che tuttologi.
- In Italia manca totalmente un sistema di controllo sui periti. Nel
modo anglosassone si arriva ad una tale preoccupazione per i diritti
dell’imputato che quando in un processo si scopre che un perito ha
commesso degli errori, d’ufficio si vanno a rivedere le sue perizie
precedenti e si procede a revisione del processo se si scoprono
analoghi errori. In Italia periti che hanno preso cantonate clamorose,
che hanno fatto spendere miliardi in processi sbagliati, che hanno
provocato la detenzione di innocenti o la liberazione di criminali, che
sono stati smentiti decine di volte, continuano ad essere chiamati da
una giustizia ignara e imperterrita, come se nulla fosse accaduto.
Mancando ogni certificazione di qualità del perito, l’imputato si trova
nella situazione di un malato a cui in un ospedale le cure venissero
impartite, assolutamente a caso, da un portantino o da un infermiere o
da un medico. In questo scritto ho portato esempi di periti indegni:
ebbene, vi posso assicurare che essi continuano dal 1970 a essere
nominati ed a far danni, senza che nessuno nella giustizia si sia mai
preoccupato di sapere se lavorano bene o male.
- Mancando esperti quotati a livello universitario, mancano insegnanti
in grado di formare nuovi periti e mancano veri esperti che possano
insegnare ai giudici. E’ significativo il fatto che lo Stato è quasi
del tutto assente e che l’unica iniziativa di cui siamo a conoscenza è
contenuto nel “Progetto lauree scientifiche” organizzato dal MIUR
(ministero istruzione università ricerca) in collaborazione con
Confindustria. La ricerca in oggetto, messa in atto già nel periodo
2006/2007 e poi nel 2010/2011, è stata dedicata “
alla ricerca e quantificazione di piombo e antimonio nei residui della
sparo (bossoli e capsule di innesco di cartucce esplose) mediante
spettrofotometria di assorbimento atomico in fiamma (AAS).”Si
tratta di una metodologia da decenni del tutto superata e inadeguata:
sarebbe interessante sapere qual è quella mente illustre che ha
suggerito tale argomento al ministero ed ha fatto buttar via soldi
preziosi.
- Manca una cultura scientifica tra giudici, avvocati e
giornalisti. Le perizie troppo spesso vengono accettate a scatola
chiusa e vengono lette solo le conclusioni. Guai all’imputato che non
ha i soldi per pagarsi un buon perito; e talvolta ha i soldi, ma non sa
se il suo perito che ha davanti è all’altezza della situazione.
Purtroppo i giornali dànno sempre risalto agli errori del giudice, ma
ben poco alla cialtroneria di tanti periti.
- Non mancano, in compenso, università, associazioni nazionali o meno,
società, enti che offrono corsi di laurea in scienze delle
investigazioni (celebre un tempo quello dell’Aquila che, grazie ad
apposite convenzioni con gli enti statali, offriva tanti di quei
“crediti professionali” da permettere a qualsiasi appuntato o
assistente di conseguire la laurea sostenendo due o tre facili esami),
master di I o II livello, attestati ecc. ecc. il cui valore non supera
quello della carta su cui vengono stampati i diplomi. I vari docenti
risultano personaggi del tutto sconosciuti o, talvolta, conosciuti per
la loro incompetenza.
- I PM amano solo i periti che danno loro ragione, che sostengono i
loro squinternati sospetti. Ben pochi hanno letto le novelle di
Sherlock Holmes (molto istruttive perché bene spiegano il rapporto fra
scienza e logica) in cui ripetutamente si legge che “è un errore
teorizzare prima di avere i dati; senza accorgersene si comincia a
deformare i fatti per adattarli alle teorie invece di adattare le
teorie ai fatti”.
Esemplare invece la situazione inglese in cui vi è il Forensic Sciences Service (chiuso nel 2010 perché costava troppo!) ),
soggetto a controllo parlamentare. Il FSS raccoglie i maggiori esperti
in ogni settore e fornisce inoltre assistenza scientifica a oltre 60
stati esteri. Impiega circa 2500 persone, 1600 delle quali sono
scienziati e molte sono riconosciute autorità a livello mondiale nei
loro ambiti. I suoi sette laboratori sono tutti accreditati secondo gli
standards di qualità UKAS (NAMAS) e BSI QA 9000. Attualmente soffre un
po’ per la diminuzione di fondi, ma è esemplare la chiarezza con cui
affronta i suoi stessi errori. Accanto ad essa la Forensic Science
Society (http://www.forensic-science-society.org.uk/ )
organizza ogni anno severi esami per aspiranti periti, controlla
periodicamente che i periti inglesi siano aggiornati e non abbiano
commesso errori, revisiona perizie se si scoprono errori in esse o se
sopravvengono migliori metodiche scientifiche.
- Il consulente di
parte non giura di dire la verità e quindi il suo compito è di far
vedere lucciole per lanterne ai giudici; spesso fa delle critiche
fondatissime al perito di ufficio, ma il giudice tenderà sempre a dar
maggior fiducia al perito che ha giurato; il guaio è che questi di rado
è in malafede e giura il falso, ma troppo spesso è un ignorante o un
ciarlatano che finge di sapere con gran sicumera. E purtroppo i giudici
adorano i periti e testimoni che ostentano grande certezza. È la chiave
del successo di ogni ciarlato sulle persone ansiose ed esitanti.
Mancanza di metodo logico-scientifico
In molte perizie ho riscontrato poi un deleterio modo di ragionare dei
periti i quali, posti di fronte ad un quesito tecnico, rispondono al
giudice citando sentenze! Un simile modo di procedere dimostra che essi
non hanno ben chiaro il rapporto tra fatto e diritto (e purtroppo non
lo hanno neppure quei giudici che affidano questioni giuridiche ai
periti o che non si accorgono dell'errore logico!)
Il problema sarà più chiaro ragionando su di un esempio specifico e
abbastanza comune. Viene rinvenuto in possesso di un cittadino un
bossolo d'artiglieria già sparato o un guscio vuoto di mina o di bomba
(reperti comunissimi sui luoghi della Grande Guerra e raccolti da molti
collezionisti); il giudice nomina un perito e gli affida l'incarico di
dirgli se essi siano ancora destinabili al caricamento di munizioni da
guerra o di ordigni, perché così stabilisce la legge 895/1967 in cui si
dice che per aversi un reato le parti di arma o munizioni devono ancora
essere atte all'impiego.
Orbene un perito normale, esperto di cose tecniche, deve rispondere in
base alle sue cognizioni tecniche e, se non è uno sprovveduto
incompetente o un servo sciocco dell'accusa, dovrebbe scrivere, ad
esempio:
- che non si è mai visto ricaricare un bossolo di artiglieria o di
mitragliatrice perché nessuno dispone degli attrezzi e dei materiali
necessari;
- che anche se uno lo ricaricasse non saprebbe dove spararlo visto che
i cannoni della prima guerra mondiale non li vendono al mercatino delle
pulci;
- che infatti ministero della Difesa e dell'Interno hanno stabilito che i bossoli in pratica non sono ricaricabili;
- che non si è mai visto ricaricare un guscio di bomba a mano o di mina
perché, una volta privi della spoletta e di meccanismi di scatto, essi
perdono ogni significato pratico in quanto non essenziali per fare una
bomba o una mina e facilmente sostituibili con un qualsiasi contenitore
(le mine spesso sono solo scatole di plastica);
Che cosa fanno invece molti periti, specialmente quelli che in vita
loro non hanno mai maneggiato un'arma da guerra e non hanno mai visto
una bomba perché sono dei pacifici cancellieri, ragionieri o ingegneri
civili? Si vanno a studiare la Cassazione e rispondono al giudice che
il bossolo è ancora atto all'impiego … perché lo ha detto la
Cassazione!
Si crea cioè il tipico circolo vizioso del cane che si morde la coda:
un perito sciocco dà informazioni sbagliate ad un giudice; queste
informazioni portano a sentenze sbagliate, anche da parte della
Cassazione, e poi un perito ancor più sciocco utilizza queste sentenze
sbagliate per le conclusioni di una sua perizia. E così si crea la
leggenda che i bossoli possono essere riutilizzati e la conseguente
“giurisprudenza consolidata”.
Sia ben chiaro che la Cassazione non ha mai scritto in una sentenza che
i bossoli sparati sono ricaricabili, ma ha sempre scritto che se il
giudice di merito aveva accertato che il bossolo era ricaricabile, la
Cassazione non poteva che prenderne atto e confermare la sentenza di
condanna. La Cassazione di certo non si mette ad inventarsi di testa
sua affermazioni tecniche (pochissime volte in realtà lo ha fatto,
commettendo lo stesso errore logico dei periti, ma si tratta di
sentenze di mera routine, non certo meditate) e tanto meno vi può
essere una giurisprudenza su un dato di fatto; le sentenze applicano la
legge ai fatti, ma questi devono prima essere accertati.
Vi è poi un problema di fondo, insito nella perizia scientifica e che
viene sempre trascurato. Un tempo si distingueva fra prove e indizi.
Prove erano quei dati che consentivano di dedurre direttamente la
responsabilità del reo; prova principe era la confessione. Indizi erano
quei dati di per sé non significavi ma che, uniti ad altri convergenti,
consentivano di crearsi un convincimento sulla responsabilità del reo
(movente, presenza sul posto, mancanza di alibi, fuga, menzogne, ecc.).
Attualmente le prove non esistono più e le stesse prove scientifiche non danno mai certezze.
Purtroppo, avendo lasciato per mezzo secolo le scienze forensi in mano
ai dilettanti, ai ciarlatani (persone che avevano capito che basta un
po’ di prosopopea e si riesce a far bere di tutto ai giudici), ai
medici che si dichiarano legali solo perché hanno scritto qualche
articolo di diritto, nessuno si è accorto che le scienze forensi non
sono scienze esatte, ma solo delle tecniche che acquisiscono degli
indizi che poi devono essere oggetto di accurata valutazione e di una
precisa dimostrazione.
Mi spiego meglio. Quando si applica una scienza esatta come la fisica o
la chimica, inquadrabile in formule matematiche, si stabiliscono dei
fatti incontrovertibili che devono solo essere valutati nel quadro
probatorio; se in un corpo si trova della stricnina e il metodo seguita
per rilevarla è stato corretto, la presenza della stricnina è provata;
si dovrà solo cercare chi ce l’ha messa (può avercela messa anche il
medico che ha fatto i prelievi o le analisi, per sbaglio o
volontariamente, ma è sicuro che la stricnina c’è, nei limiti
dell’umana certezza).
Quando invece il medico fa una diagnosi, egli mette insieme i dati che
conosce (ma è possibile che gliene sfuggano altrettanti), dà a ciascuno
un certo peso e poi esprime l’opinione che il suo cervello è stato in
grado di elaborare; un luminare ci azzecca forse dell’80% dei casi, lo
sciocco ci azzecca nei casi semplici, ma si perde se il caso è un po’
complicato o anomalo. Questo perché non vi sono regole scientifiche o
formule matematiche che consentano di fare una diagnosi certa, come è
dimostrato dal fatto che non esiste un programma serio per fare
diagnosi con il computer.
Il che significa che quando non viene applicata una scienza esatta
l’opinione dell’esperto non può mai essere espressa in termini di
certezza, ma solo in termini di probabilità. Sia chiaro che fa una
bella differenza il dire che una certa particella è un residuo di sparo
al 99% o all’70% ; ma purtroppo chi è mentalmente limitato si limiterà
a dire che la particella “è compatibile con un residuo di sparo”, il
che equivale a dire “forse” “è possibile”, “spero di azzeccare la
risposta”, “lo dico, ma senza responsabilità”. Invece lo scienziato
risponderebbe “in base alle conoscenze attuali e se sono corretti i
dati rilevati, visto che anche le macchine possono sbagliare, tenuto
conto del possibile errore umano, dell’errore di approssimazione insito
nei metodi usati e applicando le formule statistiche sopra elaborate,
posso dire che la mia affermazione ha la probabilità di essere vera al
72,5 % e che una sola particella non dimostra nulla. Sta a te, giudice
di stabilire se il fatto che vi sia tale possibilità che una particella
sia un residuo di sparo, sia sufficiente a dimostrare che l’indagato ha
sparato alla moglie; ti ricordo, giudice, che la particella, se tale è,
può essere finita in quel posto per svariati motivi, primo o dopo dello
sparo alla moglie, motivi che sta a te di escludere”!!
Ho usato la formula “allo stato della scienza” perché è noto che non
passa giorno in cui nozioni che venivano considerate come assodate, si
scoprono essere errate o dubbie.
Invito tutti a ricordare che la parla “compatibile” che compare
nelle conclusioni di moltissime perizie è una nefandezza logica che
viene usata dal perito o per non ammettere di non essere riuscito a
dare una risposta certa oppure per non scrivere che l’affermazione
dell’accusa è del tutto errata. Faccio un esempio reale: il perito
aveva scritto che “il coltello è compatibile con la ferita”. Ebbene, al
dibattimento si è scoperto che siccome la ferita era stata inferta con
una lama ad un solo filo, il coltello da tasca dell’imputato, ad un
solo filo, ben poteva essere stato usato … come qualche altro milione
di coltelli!
Chi è stato vittima di un errore giudiziario in Italia non deve però
aver alcuna speranza nei progressi della scienza: mentre negli USA si
riesce a fare l’esame dei DNA su fatti di oltre 10 anni prima, in
Italia i reperti vengono buttati via subito dopo la fine del processo,
così impedendo ogni revisioni delle perizie.
Un altro aspetto della questione che sfugge ai giudicanti è il
seguente: nel corso delle indagini il PM esegue degli accertamenti per
orientare le indagini; egli quindi può accontentarsi di accertamenti
utili a tal fine; ma non è assolutamente detto che essi servano anche a
sostenere l’accusa in giudizio dove deve essere escluso ogni
ragionevole dubbio. Quando si passa alla fase del giudizio, quando al
giudice non servono ipotesi ma certezze, non si può certo condannare
perché l’imputato forse aveva sulle mani residui di sparo e perché
forse il proiettile era uscito dalla sua pistola. La prova deve essere
scientifica e cioè rispettare quei canoni logici ben illustrati da
Galileo: l’accusa deve dimostrare, ad esempio, che il proiettile è
sicuramente uscito dall’arma dell’imputato, che non può essere uscita
da altri armi eguali, che non è un proiettile uscito da quell’arma ma
riutilizzato con trucchi vari, che solo l’imputato può aver utilizzato
l’arma, che quando il proiettile ha colpito la vittima questa era
ancora viva, ecc. Se non ci riesce l’imputato deve essere assolto. Ma
quanti periti e quanti giudici arrivano a questa raffinatezza
mentale?
Vediamo ora per alcuni rami delle scienze forensi quali siano le
difficoltà da affrontare, talmente elevate che solo i ciarlatani sanno
dare risposte in termini di certezza.
Il sopralluogo sulla scena del delitto
In teoria Polizia e Carabinieri hanno precisi protocolli per effettuare
un sopralluogo e per raccogliere reperti. Ma non è sufficiente avere il
libretto nel cassetto per applicare bene le regole e i pochi esperti
non si trovano, se non per un evento fortunato, vicino al luogo
dell’intervento; quindi il sopralluogo viene fatto da soggetti che
hanno una scarsa preparazione e una ancor più scarsa esperienza. Ho
davanti l’episodio accaduto in Sicilia di recente in cui, sebbene si
magnificassero tutte le procedure seguite per raccogliere dei residui
di sparo senza contaminazioni, alla fine risultava contaminato proprio
il tampone vergine che doveva servire di campione! Già ho detto di ciò
che è accaduto a Perugia, sebbene per tutto il processo di primo grado
si sia disperatamente sostenuto che il sopralluogo meglio di così non
lo avrebbe potuto far nessuno!
Il sopralluogo è una cosa delicatissima che non consente errori perché
viene meno l’efficacia probatoria di qualsiasi reperto. Non basta che
gli investigatori recitino bene la loro parte con guanti e tute, non
basta far scena, ma è indispensabile che sappiano sempre come ogni cosa
va fatta in modo perfetto: come si recinta la zona, come si impedisce
l’accesso a tutti, come si fotografa, come si filma, come si raccolgono
i reperti, come si etichettano e sigillano, come si deve poter
escludere ogni contaminazione, ecc. ecc..
Gli accessi alla scena devono essere ripetuti il meno possibile perché,
dice una regola, ”ogni volta che una persona vi entra, vi introduce
qualche cosa e porta via altre cose”.
Sia chiaro che le limitazioni degli investigatori non sono colpa loro:
mancano i soldi per tenere a tutti corsi approfonditi, mancano i soldi
per acquistare strumenti e reagenti, mancano i soldi per un numero
adeguato di esperti. Soldi che forse si potrebbero recuperare
eliminando le scorte ai politici, eliminando l’assurda burocrazia degli
uffici amministrativi, risparmiando sul gratuito patrocinio a chi è già
stato condannato. E sia chiaro che indubbiamente Polizia e Carabinieri
non hanno nulla da invidiare rispetto agli altri paesi per capacita
investigativa tradizionale.
Ma una loro certa tendenza a strafare, a darsi arie del tutto
ingiustificate è palese. Pensate a che sceneggiate fanno con i cani da
ricerca (che non trovano quasi mai nulla perché hanno i loro limiti
dettati da madre natura) i quali solo diventati “cani molecolari”;
termine buono per far credere agli allocchi che gli investigatori
abbiano specie di cani geneticamente modificati o di una specie aliena!
Un cane da ricerca è un cane con un buon fiuto addestrato a ricercare
determinate tracce odorose; che poi cerchi tartufi, beccacce,
esplosivi, uomini non lo fa diventare un supercane.
Interrogatorio
In Italia non esiste un testo che insegni come si conduce un
interrogatorio al fine di raccogliere elementi di prova dall’indagato,
di trovare punti deboli nella sua difesa, di controllare se sia il vero
colpevole o un mitomane, se copra qualche complice o chiami in correità
innocenti, ecc, ecc.
Regola fondamentale è che chi interroga non deve mai fare domande che
anticipino la risposta, che facciano capire ciò che è noto al PM, che
forniscano all’interrogato dettagli sul caso (se è colpevole, li
conosce meglio del PM, se è un mitomane o copre altri, i dettagli
servono come termine di controllo). Guai se il PM fa una domanda lunga
a cui l’indagato risponde con un sì o con un no.
Una palese violazione di questa regola di esperienza si è vista nel
caso del delitto di Avetrana, primo interrogatorio del Messeri, che non
ha consentito di accertare un bel nulla perché il PM parlava molto più
del Messeri!
Chi interroga deve aver presente che l’indagato nella sua mente, da
quando ha commesso il fatto, ha rimuginato a lungo sulla storia che
vuole raccontare; questa storia non può che essere incompleta perché
l’indagato colpevole può solo fare supposizioni su quanto il PM sa, a
meno che questi non abbia già raccontato tutto ai giornali, come si usa
attualmente. Perciò l’indagato deve essere invitato a esporre la sua
storia in modo particolareggiato; chi lo interroga non deve contestare
ciò che egli dice, ma solo aggiungere richiesta di particolari. Dopo
sarà facile far emergere i particolari che non quadrano, il che
costringe quasi sempre l’indagato a penosi aggiustamenti della sua
storia. Per contro, se l’indagato è innocente, è chiaro che gli si deve
dar modo di esporre la sua difesa nel modo più ampio.
Autopsia
È normale leggere che dopo la prima autopsia ne viene disposta una
seconda e anche una terza. Non è assolutamente normale e corretto che
ciò avvenga. Salvo rarissimi casi, ciò dimostra solamente che il medico
legale che ha eseguito la prima autopsia non ha lavorato bene; e che il
giudice non sa che dopo che su un cadavere è stata effettuata una
autopsia, rimane ben poco da poter ricontrollare.
Vecchio vizio italico questo, indice più di stupidità che di capacità,
di cui è rimasto emblematico il caso di Ettore Grandi, perfettamente
innocente, che accusato nel 1938 di aver ucciso la moglie (che invece
si era suicidata) venne assolto nel 1951 dopo anni di galera e ben 18
perizie medico-legali inconcludenti!
Chi esegue una autopsia deve: fotografare e descrivere il corpo
vestito; togliere i vestiti controllando se vi sono tramiti
corrispondenti a ferite; repertare separatamente ogni vestito ed
oggetto per evitare contaminazioni e dispersioni di tracce; eseguire
sul corpo radiografie per rinvenire corpi estranei (proiettili,
pallini, ecc.); descrivere con la massima accuratezza ogni segno e
fotografarlo; descrivere e fotografare ogni ferita cercando di
individuare la direzione e natura del tramite interno; descrivere ogni
segno tanatologico; repertare sostanze depositate sulla cute, capelli,
insetti, ecc.); repertare materiale sotto le unghie. A questo punto può
iniziare l’autopsia vera e propria descrivendo e fotografando tutte le
parti che presentano anomalie, repertando campioni di tessuto di ogni
organo e di ogni liquido organico, descrivendo le lesioni interne e
loro tramiti.
È chiaro che occorre un medico legale di provata esperienza e capacità
il quale abbia l’occhio allenato a percepire ogni minima anomalia ed a
capirne l’importanza. Se il giudice pensa che se lo possa trovare
sottocasa, in ogni sede di Tribunale, si sbaglia di grosso!
Impronte digitali
La scienza offre ora numerosi metodi per rilevare impronte digitali
quasi da ogni materiale. Bisogna avere i mezzi necessari per acquistare
strumenti e reagenti (in Italia non li abbiamo e quindi non è colpa dei
laboratori di polizia se non vengono impiegati) e bisogna avere sulla
scena del delitto persone che ricerchino le impronte senza
distruggerle; se iniziano a spolverarle con il vecchio pennello è poi
inutile cercare di trovarle con altri metodi più moderni!
In Italia abbiamo lo schedario delle impronte delle persone arrestate e
degli immigrati (circa quattro milioni di persone) e abbiamo il sistema
informatizzato che consente, da un buon frammento di impronta, di
restringere la ricerca a poche persone. In Italia la Cassazione, tratta
in inganno da uno dei suoi periti che si era messo a fare calcolo
statistici senza conoscere la statistica, aveva stabilito che per avere
una identificazione occorreva trovare ben 16 punti di coincidenza
(minuzie); in realtà ne bastano anche quattro o cinque in quanto non si
devono solo contare ma si deve calcolare la loro posizione reciproca
(un conto è dire che uno ha tre nei sulla guancia; un’altra cosa è dire
che ha tre nei messi ai vertici di un triangolo rettangolo con lati in
una certa proporzione; in questo casi tre coincidenze sono
sufficienti). Sempre fermo restando che occorre la dimostrazione
statistica del peso probatorio di una certa combinazione dei quattro
segni e purché non vi siano segni che non coincidono.
Proprio per le impronte digitali il prof. Itiel Dror dell’Università di
Southampton ha fatto un bello scherzo a sei esperti di vari paesi
(compresi Inghilterra ed USA) ed ha sottoposto loro otto diverse
impronte latenti rilevate sul luogo di delitti e sei impronte prelevate
a otto diversi sospetti, rispetto alle quali i periti, senza che lo
ricordassero, si erano già espressi. In sei casi su 48 i periti diedero
una risposta diversa da quella su cui avevano già giurato in tribunale
e solo due esperti non deviarono in nessun caso dalle affermazioni già
fatte! Nel 2002 negli Usa si sono accertati quasi 2000 casi di
identificazioni erronee. Se questo è il margine di errore su di un
accertamento considerato fra i più consolidati ed affidabile, da
lasciar fare a qualunque tecnico in grado di ingrandire una foto, su
cui molti enti, come lo stesso U.S. Department of Justice, giurano che
il margine di errore è eguale a zero, si immagini quanti errori sono
stati commessi in Italia dove nessuno si è mai permesso di contestare
un accertamento sulle impronte.
DNA
Il DNA è in grado di far individuare una persona da infinitesime parti
dei suoi tessuti corporei. Una traccia di liquido organico (saliva,
sperma, sangue, orina, sudore), una squama di forfora, un pelo con il
suo bulbo, vengono trattati con l’enzima polimerase in modo che
frammenti del DNA si ricompongano nella dovuta sequenza; ripetendo la
procedura molte volte, si riproduce il fenomeno ottenendo un numero
sempre maggiore di campioni di DNA, in modo esponenziale; questo
procedimento viene detto “reazione a catena della polimerase, PCR, ed è
in grado in tre ore di ricreare 100 miliardi di molecole di DNA
identiche; con un nuovo metodo dell’Università del Michingan questo
procedimento si conclude in soli 40 minuti. Però il risultato non è un
codice numerico come il codice fiscale, idoneo, se sufficientemente
lungo, a distinguere ogni cittadino, ma solamente l’immagine di una
elettroforesi che presente un certo schema; se almeno 13 punti di
questo schema coincidono con lo schema estratto dal campione di DNA da
confrontare, si afferma (dai teorici) che vi è coincidenza con una
probabilità di un errore su di un miliardo. Nella pratica però si è
visto, facendo una ricerca in un database del DNA dell’Arizona con
65.000 campioni, che con nove punti si trovavano bene 122
corrispondenze, con dieci punti 20, con 11 e con 12 punti una
corrispondenza; altro che un errore su un miliardo!
Il problema del DNA come prova nel processo penale è però ben più
complicato e non si limita solo al problema di ricollegare un certo DNA
ad un dato individuo. Ogni persona disperde in continuazione una tale
quantità di materiale organico proprio (la polvere di una casa è
costituita per la maggior parte da cellule umane) o altrui (catturato
con gli abiti e le scarpe) che è impresa improba distinguere il DNA
utile da quello estraneo ed evitare che il DNA utile venga da esso
contaminato. In Australia è successo che in ben tre casi di omicidio si
erano trovate le stesse tracce di DNA; erano convinti di aver trovato
un serial killer, fino a che non hanno scoperto che il DNA era quello
dell’esperto della polizia che faceva le analisi senza le debite
cautele.
Il problema è così complesso ed importante che le metodiche e i
protocolli di ricerca e prelievo dei reperti, della loro conservazione,
della loro manipolazione, dovrebbero essere fissati normativamente,
così da poter garantire la genuinità della prova. Ogni azione, dalla
ricerca all’analisi, è in sostanza una operazione irripetibile, secondo
la distinzione del codice di procedura penale e il fatto di ignorare
questo dato elementare comporta che la prova con il DNA diventi subito
aleatoria.
Non parlo ovviamente dei casi in cui vi è da identificare una quantità
rilevante di materia organica (sangue, sperma) in cui la contaminazione
viene facilmente rilevata, ma di tutti quei casi in cui la traccia
utile è minima. Tra l’altro quanto più la traccia è modesta, tanto più
cresce la difficoltà di separare due DNA che si trovino ad essere
esaminati assieme.
Vediamo un esempio pratico di come dovrebbero funzionare le cose. Si
abbia una stanza in cui è avvenuto un omicidio. In essa vi sono tracce
di DNA del morto, dell’assassino (a meno che non fosse ben imballato in
una tuta di plastica!) e di tutti coloro che hanno frequentato la
stanza prima dell’omicidio, senza limiti di tempo, ovviamente in
relazione al tipo di pulizia in uso. Chi scopre l’omicidio porta il suo
DNA nella stanza e altrettanto fanno tutti coloro che lo seguono. In
genere l’esperienza ci dice che prima dell’arrivo della squadra
scientifica, entreranno nella stanza almeno una decina di persone che
spargono il proprio DNA e portano in giro con le scarpe quello che già
vi trovano. In Italia manca un preciso protocollo di intervento, e
sopralluogo da parte della polizia, il quale consenta poi al giudice di
controllare che non vi siano stati comportamenti scorretti.
Quando arriva la squadra scientifica, con il minor numero di persone
possibile, questa deve essere rivestita con apposita tuta,
perfettamente pulita, con cuffia e con guanti e che copra anche le
scarpe; non guasta una mascherina davanti alla bocca perché uno
starnuto o uno spruzzo di saliva possono inquinare l’ambiente. Già in
questa fase bisogna protocollare i nomi di tutti coloro che sono
intervenuti ed intervengono perché poi si possa escludere il loro DNA
dalle ricerche.
Inizia quindi la ricerca dei reperti (intendesi con tale termine cose
più o meno grandi che possono essere il supporto di parti anche
infinitesimali di DNA) con vari metodi (vista, aspirapolvere, nastro
adesivo, luce fluorescente, laser, ecc.). Nel momento in cui un reperto
deve essere prelevato, non si possono usare i guanti che si indossano
perché già inquinati, ma si usano nuovi guanti oppure un attrezzo ben
pulito. E questo va usato una sola volta oppure accuratamente pulito
dopo ogni uso perché altrimenti si corre il rischio di trasportare DNA
del primo reperto sul reperto successivo. Nell’ambiente si deve
procedere senza calpestare le zone non ancora controllate perché con i
piedi si possono trasportare tracce da un punto all’altro. Ovviamente
ogni prelievo va prima accuratamente fotografato.
Il reperto trovato deve essere immediatamente sistemato in un
contenitore stagno portato sul luogo ben chiuso e perfettamente pulito
e il contenitore va immediatamente sigillato e munito di scritte di
identificazione. Da quel momento il contenitore può essere aperto solo
dal perito incaricato dal giudice e che deve operare anch’egli in modo
da evitare nel modo più assoluto la contaminazione. Egli inoltre deve
protocollare ogni apertura e richiusura del contenitore con indicazione
delle cautele adottate e delle persone partecipanti.
In genere, se non si filma tutto, è necessario procedere alla redazione
di un verbale in cui siano descritte tutte le operazioni compiute,
nella loro sequenza temporale, con indicazione di tutte le persone
intervenute e di ciò che hanno fatto. È sempre necessario che
l’investigatore possa dimostrare di aver fatto tutto secondo le regole
perché se dichiara di averle seguite solo al dibattimento, a seguito di
contestazioni, vi è il fondato sospetto che lo faccia solo per coprire
suoi errori.
Se non si seguono queste regole, la prova del DNA può diventare priva
di ogni valore processuale perché non prova più nulla. Come per le
impronte digitali, una traccia di DNA dimostra che prima di una certa
data una persona è venuta in contatto con un oggetto o un ambiente, ma
non lo ricollega direttamente al delitto. Il significato probatorio può
derivare dal punto di rinvenimento, ma allora l’investigatore deve
essere in grado di provare che la traccia ha potuto trovarsi in quel
punto solo in relazione al delitto e non perché, ad esempio, ce l’ha
trasportata un maldestro operatore.
Un esempio eclatante dei problemi che presenta l’elevatissimo pericolo
di inquinamento del reperto lo si è avuto il Germania proprio il 29
marzo 2009. Da due anni la polizia tedesca rinveniva sulla scena di
gravi delitti, tra cui anche l’omicidio di un poliziotto, lo stesso DNA
di una persona di sesso femminile; alla fine si aveva il quadro di una
specie di serial femminile detto "Phantom vom Heilbronn" che girava per
la Germania commettendo delitti gravi (ovviamente la ricerca del DNA
viene fatta in casi di un certo rilievo). Già le erano stati attribuiti
40 casi con la conseguenza che non era stata svolta alcuna altra
indagine per accertarne gli autori, perché la prova del DNA veniva
considerata sufficiente. Poi per caso si è fatta la penosa scoperta che
i bastoncini di ovatta usati per il prelievo del DNA e forniti da
un’unica ditta, erano stati tutti contaminati del DNA di una operaia
della ditta!
Viene quindi da rabbrividire quando si vede un filmato (come è accaduto
per il processo di Perugia), prodotto a dimostrazione delle cautele
usate, in cui i poliziotti raccolgono un reperto decisivo con i guanti!
I guanti servono per non contaminare l’ambiente con il DNA
dell’operatore, ma non per raccogliere reperti perché dopo due secondi
che si usano per ricercare qualche cosa sono già inquinati, e un
reperto importante NON va toccato con i guanti, ma va raccolto con una
pinzetta da usare una sola volta.
Il problema dell’inquinamento da DNA non è ancora stato risolto e quindi la cautela non sarà mai troppa.
Provate a immaginare in quanti casi gli investigatori italiani hanno
usato queste procedure e avrete una buona idea del numero di innocenti
in carcere!
Un ulteriore caso recente che colpì l’opinione pubblica italiana
avvenne nell’agosto del 2002, quando una ragazza venne assassinata
nella pineta di Castiglioncello. L’unico elemento di prova furono delle
tracce biologiche, verosimilmente appartenenti all’assassino, rinvenute
vicino al corpo. Il profilo DNA estratto da queste tracce fu messo a
confronto con i profili DNA nelle banche dati Europee.
Del delitto venne accusato un barista inglese, Peter Hankin, che fu
anche arrestato. A indicare la colpevolezza dell’inglese era stata una
comparazione eseguita dalla polizia britannica tra il campione di DNA
ricostruito dal Ra.C.I.S. (Raggruppamento Carabinieri
Investigazioni Scientifiche) e un campione di DNA di Hankin, presente
nel database britannico, prelevato durante un controllo, nel 2001,
quando l’uomo era stato fermato in Inghilterra per guida in stato di
ebbrezza.
Almeno 20 clienti del pub e il proprietario stesso testimoniarono che
Hankin non si era allontanato dal suo posto di lavoro per un lungo
periodo, comprendente anche l’agosto del 2002. Come fu possibile un
“match” con il suo DNA? I sistemi genetici usati dal Ra.C.I.S., basati
su 15 marcatori, e quelli usati nel database nazionale inglese avevano
in comune soltanto sette marcatori. Il profilo di Hankin e il profilo
dell’omicida di Castiglioncello erano identici su questi sette
marcatori. Limitando l’analisi ai soli marcatori comuni ai due
database, il rapporto delle verosimiglianze a favore della colpevolezza
è estremamente incriminante, risultando circa pari a 1,2 x 109.
Successivamente, da un nuovo test eseguito su Hankin risultarono
incompatibilità su tre marcatori e inoltre si trovò che uno dei sette
marcatori in comune era stato erroneamente tipizzato.
Balistica
Il problema della balistica forense è ancora più serio perché abbraccia
più scienze e non esiste un percorso accademico che dia la qualifica
professionale in scienze balistiche. Quindi manca il controllo su chi
si autoproclama perito balistico.
Questi dovrebbe conoscere ampiamente la storia e la meccanica delle
armi, la resistenza dei materiali, la chimica degli esplodenti e i
fenomeni connessi alla deflagrazione della polvere da sparo, la fisica
e chimica dei residui di sparo, la balistica esterna e terminale, la
medicina legale relativa alle ferite da armi da fuoco; inoltre dovrebbe
conoscere bene il mercato delle armi e delle munizioni, dovrebbe saper
sparare e smontare e rimontare armi di ogni genere, dovrebbe avere un
laboratorio attrezzato e la capacità di utilizzare strumentazioni
sofisticatissime. La scienza balistica dovrebbe quindi essere campo di
specializzazione per ingegneri, chimici, fisici, medici legali, fermo
restando che una cultura sulle armi può essere acquisita solo leggendo
un metro cubo di libri e riviste in lingue straniere.
Proprio il contrario di quanto avviene in realtà perché la balistica è
sempre stata il campo di illusi, convinti di essere esperti di armi
solo perché vanno a caccia o perché portano una pistola attaccata alla
divisa, oppure di speculatori che vi cercavano un modo per campare.
Quando le prime esperienze di balistica forense sono state fatte negli
Stati Uniti, lo slogan corrente era “comprati una lente di
ingrandimento e fai un po’ di soldi!
È così che la storia della balistica forense è la storia di errori: non
vi è stato nessuno dei metodi di indagine via via escogitati che non si
sia dimostrato fallace nel giro di qualche anno, ma dopo che era
servito a riempire le carceri di innocenti (si veda la storia di queste
vicende nel libro di Jürgen Thorwald, La scienza contro il delitto,
Rizzoli, 1965).
I problemi più ardui che deve affrontare la balistica forense sono:
a - stabilire quale tipo di arma ha sparato un certo proiettile
b - stabilire in quale tipo di arma è stato sparato un bossolo di cartuccia
c - stabilire la distanza di sparo
d - stabilire se un dato proiettile o un dato bossolo sono stati sparati da una certa arma
e - stabilire se vi sono residui di sparo utili a ricostruire
l’accaduto; in particolare sono importanti i residui che consentono di
individuare lo sparatore.
Le indagini di cui ai punti a e b sono in sostanza sperimentali e
richiedono solo delle buone banche dati e l’intelligenza per capire che
la materia delle armi è sterminata con decine di migliaia di modelli
(pare che solo di pistole semiautomatiche cal. 6,35 mm vi siano oltre
5.000 modelli), ragione per cui ogni affermazione può essere solamente
probabilistica.
Le indagini sulla distanza di sparo basate sulla dispersione dei
pallini sono sperimentali; quelle basate sulla nuvola dei residui di
sparo sono valide solo entro una distanza molto limitata, ma i mezzi
moderni consentono di evidenziare l’area di deposito di questi residui
e sono alla portata di un buon tecnico.
La comparazione di bossoli, di tracce lasciate dal percussore, ma in
special modo delle tracce lasciate dalla canna dell’arma sul
proiettile, sono invece dense di trabocchetti e richiedono estrema cura
ed attenzione, capacità di usare la strumentazione, acume nel valutare
i risultati; si consideri che spesso basta una diversa illuminazione
dei reperti per alterare il risultato. Si tratta infatti di individuare
le macrostriature che consentono di capire che un proiettile è uscito
da una canna avente pieni o vuoti di rigature compatibili con le
macrostriature rilevate sul proiettile; la corrispondenza non significa
assolutamente nulla, ma se la macrostriatura non corrisponde è inutile
cercare oltre: la canna non è quella. In caso di corrispondenza occorre
vedere se corrispondono anche le microstriature all’interno della
macrostriatura, della larghezza di qualche millimetro. Immaginate di
avere dei ritagli di un codice a barre e di accostarli l’uno all’altro
al fine di ritrovare il ritaglio corrispondente. È chiaro che la
corrispondenza si avrà se tutte le righe coincideranno; è possibile che
qualche riga si sia cancellata, ma il fascio di righe deve sempre
combaciare. Per compiere questa operazione a volte basta un normale
microscopio, altre volte è necessario un microscopio di comparazione e
altre volte, se necessaria maggiore profondità di campo (specialmente
per i segni di percussore) si ricorrerà ad un microscopio a scansione.
Esauriti tutti i mezzi a disposizione o si ha la certezza di una
comparazione positiva o la risposta non può che essere negativa. Una
risposta in cui si dice che il proiettile è compatibile con una certa
arma può servire ad orientare le indagini (non a stabilire al
colpevolezza) ma non serve come prova se non sul piano indiziario.
Purtroppo queste regole vengono sistematicamente ignorate dai periti
pubblici o privati i quali dànno giudizi di corrispondenza persino
quando non corrispondono neppure le macrostriature. È noto agli esperti
che un perito calabrese piuttosto quotato riuscì una volta persino a
comparare proiettili di calibro diverso!
La individuazione dei residui di sparo si è rivelata con il passar del
tempo di una difficoltà estrema. Le tecniche utilizzate fino a
vent’anni orsono ormai è stabilito che servono solo per accertare se
uno … ha le mani sporche! Mentre un tempo di ricercavano (e si
trovavano!) residui di sparo sulla cute anche dopo due giorni, ora si è
stabilito che dopo due ore è tempo perso; solo i laboratori della
Polizia e dei Carabinieri li trovano anche dopo 24 ore! Mentre una
volta bastava trovare un po’ di bario o antimonio per affermare che il
corpuscolo era un residuo di sparo, ora ci si è accorti che l’aria è
piena di corpuscoli di analoga composizione (effetto dell’inquinamento)
e che quindi occorrono sofisticate tecniche di analisi (ad es.
microsonda analitica a dispersione di energia) per accertare non solo
la presenza di elementi significativi, ma anche l’assenza di elementi
chimici che non possono far parte di inneschi o polvere da sparo;
inoltre occorre accertare che la particella esaminata sia, in base alle
caratteristiche fisiche (forma sferica, superficie omogenea priva di
visibili strutture cristalline) proprio il prodotto di una detonazione
o deflagrazione. Ed infine occorre ricordare che vi è una elevatissima
possibilità di inquinamento ambientale, simile a quello indicato per il
DNA: un residuo di sparo si trova, con le stesse probabilità, sullo
sparatore, sulla vittima, su chi era presente, su chi è entrato nella
stanza, su chi ha dato la mano al poliziotto, su chi è entrato in un
ufficio di polizia!
Attualmente i laboratori seri si azzardano a dare responsi di certezza
solo nel 20% dei casi. In Italia, sommo della incoscienza e incultura,
si arriva a percentuali triple: non è che i nostri laboratori siano più
bravi di quelli americani o che abbiano la sfera di cristallo; è che
incoscientemente danno per certo ciò che è solo possibile o probabile.
Vale a dire che il 40% degli esami non sono probanti e che vi sono in
carcere altrettanti indagati o condannati con prove insufficienti. Sia
chiaro comunque che non vi è mai la certezza che una particella sferica
corrispondente in tutto e per tutto per forma e composizione ad un
residuo di sparo sia effettivamente un residuo di sparo ragione per cui
le conclusioni sulla probabilità che tale particella abbia una data
rilevanza probatoria va affidata a scienziati e non all’app. Cacace
addestrato ad usare una apparecchio scientifico!
In questo settore accadono cose incredibili. Emblematico è quanto
avvenuto un paio di anni or sono nel Meridione. Il laboratorio di zona
del RIS, in una indagine disposta dal PM di un tribunale calabrese,
ritenne di individuare sui prelievi effettuati a un indagato alcune
particelle sicuramente attribuibili a uno sparo di arma da fuoco. I
consulenti nominati dalla difesa si resero conto che le analisi erano
errate (tra l’altro non esistono particelle univocamente attribuibili a
uno sparo) e depositarono una lunga e motivata memoria nella quale
dimostrarono per tabulas tutti gli errori commessi dal RIS. Il GUP
evidentemente si rese conto che le cose non tornavano e pertanto ordinò
una perizia che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto chiarire il tutto
e stabilire chi aveva ragione. Per questa nuova indagine venne
incaricata una nostra vecchia conoscenza, lo “scopritore del promezio”
di cui abbiamo parlato più sopra. Costui, dopo aver ripetuto le analisi
sui medesimi prelievi diede piena ragione ai consulenti della difesa,
riconoscendo che quanto trovato dal RIS nulla aveva a che fare con lo
sparo. Ma, con generale sorpresa, dichiarò nel suo elaborato di aver
rinvenuto altre particelle, queste secondo lui certamente attribuibili
a residui dello sparo.
Superfluo dire che i consulenti della difesa dimostrarono che anche
queste ultime potevano essere tutto, escluso quello che il Perito aveva
ritenuto: il caso comunque si concluse con un patteggiamento assai
favorevole all’imputato che venne sollevato dall’accusa di avere usato
armi da fuoco. Ora, senza tener conto degli interventi dei consulenti
della difesa, rimane aperto un problema gravissimo: come è possibile
che sullo stesso prelievo i consulenti del PM e il perito del GUP
abbiano trovato particelle del tutto diverse e, in entrambi i casi
(erroneamente) attribuite a una sparatoria? Perché nessuno interviene
per rimediare a questa situazione? Se non avesse avuto i mezzi per
difendersi che fine avrebbe fatto l’imputato? Risposta facile: quella
di tanti disgraziati che languono in galera grazie alla “elevata
scientificità” di certe indagini. Come è successo al pescatore pugliese
Domenico Morrone condannato a 21 anni sulla base di una indagine,
evidentemente errata ed eseguita da chi poi trovò il residuo di
“ferodo” nel caso Marta Russo, e assolto dopo aver scontato innocente
15 anni. Ma quanti disgraziati non hanno e non avranno mai la “fortuna”
di Domenico Morrone? E chi rimborsa allo Stato i 4,5 milioni di Euro
pagati per il risarcimento del danno? È possibile che nessuno mai paghi
per le castronerie che scrive?
Il maggiore esperto italiano in materia di residui di sparo, il prof.
Marco Morin, che ha introdotto in Italia fin dal 1982 l’impiego del
microscopio a scansione ,quando ancora esso era una rarità da
laboratori universitari, ha scritto più volte: negli ultimi 25 anni non
ho avuto il piacere di imbattermi in una indagine sui residui di sparo
scientificamente accettabile”.
Del resto basta prendere in mano una di queste perizie, recentissima,
per scoprire: che le nozioni teoriche sui fenomeni che si verificano al
momento dello sparo sono un po’ approssimative, che le affermazioni
poste a base della perizia sono basate su vecchi studi, senza tener
conto delle recenti acquisizioni, che si ignora l’importanza del numero
di particelle che occorre individuare con sicurezza per esprimere un
giudizio (una sola non basta davvero, come purtroppo è avvenuto nel
caso Marta Russo), che viene ignorata del tutto la possibilità di
inquinamento: questi non sono accertamenti peritali, ma accertamenti
colpevolisti per aiutare il PM a sostenere l’accusa.
Il bello della storia è che dopo aver letto la perizia, ho avuto la
curiosità di seguirne gli sviluppi processuali. Il GIP, posto di fronte
alla consulenza del PM e alla consulenza di parte che la demoliva,
invece di leggere con attenzione e cercare di valutare la consulenza
del PM e quella della difesa, ha pensato bene di disporre una
superperizia incaricando un perito di “valutare l’attendibilità
scientifica e tecnica degli accertamenti del PM e delle critiche dei CT
di parte”. Questo perito risulta onusto di titoli, organizzatore di
corsi di scienze forensi, ma al GIP purtroppo nessuno aveva fatto
rilevare che nella pagina del suo sito dedicata ai residui di sparo, il
perito scrive che nelle miscele di innesco possono essere presenti, fra
l’altro, “calcio silicato” e “antimonio solfato”, mentre invece le
sostanze sono il calcio siliciuro (o siliciuro di calcio) e l’antimonio
solfuro (o solfuro di antimonio), totalmente diversi e che di certo non
compaiono fra i residui di sparo. Il solfato di antimonio era usato nei
fiammiferi, non negli inneschi. Con un perito così, che insegna agli
altri, ma non sa neppure di chimica, si fa ben poca strada nella
giustizia!
Conclusioni
Lo Stato e la Giustizia italiana hanno di fronte a sé un compito immane per ridurre il numero di errori giudiziari:
- Organizzazione di un istituto pubblico ad altissimo livello
sull’esempio inglese (il costo per la sua gestione, in Inghilterra è
stato di 170 milioni di sterline all’anno (http://en.wikipedia.org/wiki/Forensic_Science_Service).
- Organizzazione di un sistema di controllo dei periti con una banca
dati che raccolga e pubblichi tutti i casi in cui una perizia è stata
smentita.
- Creazione di un organismo di controllo sui periti ad altissimo
livello, anche con esperti stranieri e con inflessibile esclusione di
raccomandati e ciarlatani
- Precisa divisione fra chi indaga e chi giudice.
- Previsione che il PM abbia acquisito una specifica preparazione ed
esperienza nelle scienze forensi, utilizzando anche esperti stranieri.
- Previsione di una formazione specifica in scienze forensi per i giudici in materia penale.
Vi è un altro aspetto dell’errore giudiziario che
mi preme segnalare. La legge italiana non prevede alcun rimedio
efficace e generale per risarcire chi è stato danneggiato dalla
giustizia. I danni sono
- la detenzione ingiusta;
- il
pagamento delle spese legali persino se l’indagato ritiene di non aver
bisogno di alcuna difesa e si affida ad un difensore d’ufficio;
- i danni economici diretti ed indiretti
- i danni morali, psicologici, alla salute, alla vita di relazione, all’immagine, alla privacy.
Come dire: un pazzo o ignorante delle forze di polizia sbatte un
innocente sui giornali come un mostro, un pazzo o ignorante di PM
lo sbatte in galera (una galera in cui non vi sono camere
separate e dignitose, come prescritto dalla legge, ma in cui si viene
messi insieme a delinquenti incalliti di ogni genere, esposti ad ogni
violenza) e la giustizia, se va bene, gli dà qualche euro per ogni
giorno passato in carcere. Ho visto casi in cui dei giudici
ignobili hanno liquidato alla vittima molto meno di quanto egli aveva
dovuto dare all’avvocato per richiedere il risarcimento.
Vi posso garantire che attualmente migliaia di soggetti legittimati a
elevare contravvenzioni o ad accertare reati (potrei citare la
bande di animalisti messi a controllare i cacciatori) ragionano
così: “io devo fare statistiche, questo compie azioni che odio, non mi
è simpatico o non ha strisciato davanti al mio potere e io gli faccio
una bella contravvenzione anche se so che la legge dice una cosa del
tutto diversa; intanto so che il PM neanche le guarda e se le guarda
non ci capisce nulla; e così questo impara a non andare a caccia o a
tenere armi e si paga qualche migliaio di euro di avvocato e il
questore gli ritira anche la licenza di caccia; e quasi certamente lo
condannano anche se è innocente!”
Ciò significa che dalla Costituzione siamo arrivati alla legge del Menga e che si deve porre rimedio a ciò.
Sarebbe poi un bel passo avanti nel miglioramento della
giustizia lo stabilire che l’innocente additato come un mostro o messo
in carcere senza sua colpa deve essere automaticamente risarcito dallo
Stato il quale poi ha l’obbligo di rivalersi sui responsabili
dell’ingiusto trattamento, affidando il giudizio di responsabilità per
danno erariale alla Corte dei Conti, visto che i giudici ordinari hanno
così grande difficoltà a riconoscere di aver sbagliato. In altri Stati
ciò avviene già ed è servito solo a migliorare la giustizia e
l’infingardaggine della burocrazia.
Non sarebbe una cosa anomala: in Inghilterra la polizia paga per i danni provocati da dimostranti!
(Bolzano, 19 settembre 2011)
SUPPLEMENTI
Inchiesta
contabile a carico. I magistrati per l'omicidio Meredith rischiano una
condanna per danno erariale per un'indagine della Corte dei conti
dell'Umbria. Nel mirino una fattura da 182mila euro, per una
consulenza richiesta dai due magistrati perugini a una società
specializzata nella video-grafica. Il risultato è stato un'animazione
in 4D della dinamica del delitto. Per la somma di 182mila euro.
Il
filmato, ricorda Repubblica, fu proiettato in aula durante la
requisitoria della procura, ma non fu mai reso disponibile come copia
agli avvocati della difesa. La scelta fu motivata dagli inquirenti che
precisarono di voler "evitare le speculazioni dei media e l'utilizzo
televisivo del filmato". Il video - rimasto dal primo grado in poi nei
cassetti della procura di Perugia - dura circa venti minuti e
ricostruisce il delitto partendo dal pomeriggio del primo novembre
2007.
La scena dell'aggressione è stata riprodotta al rallentatore e per
realizzarla sono state utilizzate anche diverse foto scattate sul luogo
del delitto. Ora il procuratore della Corte dei conti, , con questa
istruttoria sui costi del processo Meredith vuole capire se la fattura
da 182mila euro per il video in 4D sia stata una spesa "congrua" e
necessaria per le casse pubbliche, o se si sia trattato di spreco di
denaro pubblico. Certo è che se la Cassazione dovesse confermare la
sentenza d'appello, il costo del video (182 mila euro) resterà a carico
dello Stato.
(Notizia del 1° maggio 2012).
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